Mari del nord
Alla fine del quarto secolo l’ignoto settentrione atlantico sulle
Vie del Nord fu affrontato per la prima volta dal greco
Pitea della colonia
Massalia, sebbene i suoi racconti non furono creduti, ebbe credito da celebri studiosi di
astronomia e alcuni illustri
geografi dell’ antichità, da
Ipparco di Nicea e
Kleomèdès al grande
Eratostene di Cirene nonché i più tardi
Artemidoro di Efeso e
Gemino, mentre non ebbe fortuna con
Polibio e soprattutto
Strabone nella sua
Gheographikà che ha fornito ai posteri le notizie della sua impresa.
Riprese molto più tardi da
Virgilio nel primo
libro delle sue
Georgiche scrivendo del mito di
Thule che il greco
Pitea affermò di aver raggiunto nel suo viaggio avventuroso tra le sconosciute acque gelide del
Grande Nord . Anche i romani considerarono le storie del
navigatore fantasiose, forse perché fin dall’ epoca
augustea i tentativi di spingere i confini dell’
Impero oltre la
provincia settentrionale di
Britannia erano fallite e quindi non poteva esservi nulla, tantomeno la leggendaria
Thule.
Tuttavia
Strabone riconobbe in
Pitea la sapienza geografica nel calcolare la latitudine della
Grecia con soli quattordici gradi di errore, dovuto al suo riferirsi per i calcoli al bordo anziché al centro del disco solare, intuendo inoltre che il polo non era indicato da alcuna stella, mentre formava un quadrilatero celeste con altre tre stelle vicine e ad esso si riferì per puntare la prora verso quel nord ignoto e misterioso.
Le sue capacità d’
astronomo le praticò mirabilmente annotando sempre le latitudini delle regioni che visitava, usate più tardi da
Ipparco di
Nicea calcolando la precessione degli
equinozi e tra i più grandi studi dell’astronomia
greca. Quando il greco
Pyithèas affrontò con il suo avventuroso
viaggio per la prima volta quell’
oceano oltre il
mito delle
Colonne d’Ercole annotò il fenomeno delle grandi
maree sulle coste che affacciano sull’Atlantico, confrontandole con
quelle molto minori del
Mediterraneo e intuì che la grande differenza dipendeva dalle fasi
lunari.
Prese confidenza con quell’ oceano ignoto e temuto, ne studiò i riferimenti astronomici, le
maree, le correnti e tutto ciò che era dato di conoscere nella
geografia e la nascentee
cartografia dell’ epoca, quando fu pronto ad affrontarlo nella sua regione settentrionale, laddove il
mito collocava
Thule e la
Terra degli iperborei.
Ultima Thule
L’ oblio cui fu condannato dai detrattori non permette di avere notizie di come riuscì ad organizzare un’ impresa così avventurosa e costosa, pertanto si può solo immaginare il buon
Pitea argomentare abilmente con ricchi mercanti ed armatori quali vantaggi potevano ottenere finanziando il suo temerario progetto. Certo è che il greco partì dalla sua
Massalia sul finire del quarto secolo, quando la
flotta della potente
Cartagine sbarrava l’ accesso all’
Atlantico dalle
Colonne d’Ercole, l’ unico che rammentò l’ impresa nei suoi scritti fu
Dicearco siculo di
Messina allievo di
Aristotele, ma come per altre notizie la data precisa è ignota.
Non si sa neanche come riuscì ad eludere le
navi cartaginesi a guardia dello
stretto, ma in quel periodo
Cartagine era duramente impegnata nelle
guerre greco puniche, così che v’erano ben altri problemi che inseguire un vascello greco che aveva abilmente superato il blocco.
L’ abilità di grande navigatore ed osservatore si manifestò subito fin da quel primo momento rilevando il variare delle
maree sul golfo di
Biscaglia e le coste di Normandia, dove scoprì agire una corrente derivata da una immensa de da ovest, quella che molti secoli più tardi fu scoperta come
corrente del Golfo.
Navigò lungo le coste iberica per puntare sulle
isole bretoni ad
Uxisame incrociata dalle
Vie dello stagno, quell’ isola
Ouessant che appare come desolato lembo di terra proteso nell’
Atlantico, antica base popolo
popolo iberico di
Tartesso, dove navigatori e mercanti si incontravano per lo stagno commerciato con i
Britanni e nessuno osava spingersi più a nord.
Procedendo trovò indigeni che parlavano
celtico simile all’
idioma diffuso in
Gallia fino alla sua
Massalia, ed essi chiamavano la loro terra
Kantion, che poi divenne il
Kent , ma non v’ erano le miniere di stagno che andava cercando e che avrebbe trovato tornando ia ovest. Seguendo le indicazioni dei
Britanni riprese la navigazione ad occidente incrociando le isole
Scilly al largo della
Cornovaglia per le estremità occidentali del mondo conosciuto tra il bretone di
Finistère, l’ antico capo
Bolerium e il britannico
Lands end.
L’ ubicazione e le tecniche di estrazione delle miniere di stagno furono annotate da
Pitea assieme all’ osservazione delle
maree svelandone i segreti a contemporanei e iposteri con descrizione ripresa poi dallo storico
Diodoro:
“….Essi hanno un ingegnoso procedimento per estrarre lo stagno che è contenuto in strati di roccia con venature di terra; lungo queste venature scavano gallerie…dopo aver estratto e raffinato lo stagno, lo martellano in forma di bastoncini squadrati e lo trasportano in un’ isola vicina chiamata Iktis: per effettuare questo trasporto attendono che, con la bassa marea, l’ acqua si ritiri…”.
Continuò lungo tutte le coste occidentali di quella
terra ignota di
Britannia sbarcando più volte trovando forse villaggi di
Cornovi, fino ai
territori della Scozia che ne era la punta settentrionale e risolse l’ antica controversia se fosse propaggine dei vasti territori del nord o una grande isola, che trovò di forma triangolare dando alla
Britannia una dimensione quasi doppia della reale per la fallibilità dei calcoli dell’ epoca.
Esplorando le coste della Scozia, ebbe molti contatti con la rude popolazione dei
Pitti antenati dei
clan che raccontavano di terre del nord chiamate
Scandia e
Thule, fece rotta in quel
mare sconvolto da tempeste e incrociò l’
Irlanda, ma non vi sono notizie di un suo sbarco, la scoperta fu ripresa dai testi di
Eratostene di Cirene e la
Gheographikà del garnde
Strabone che la definì la terra più settentrionale abitata, oltre la quale il freddo non permetteva alcun insediamento umano. In alcuni giorni raggiunse le sconosciute
Shetland a sessanta gradi di latitudine, sbarcando nell’
isola detta
Unst abitata da tribù che riconfermarono notizie di terre a sei giorni di navigazione verso settentrione attraverso il
mare del Nord.
Le intuizioni del buon
Pythèas diventavano certezze, trasformando la leggenda in realtà e avrebbe raggiunto ciò che andava cercando, si era spinto molto più a nord di ogni altro navigatore, ma proprio da qui affrontò l’ ignoto navigando per sei giorni nel freddissimo
mare settentrionale alle propaggini del glaciale
artico avvistando la costa gelata di quella che doveva essere la misteriosa
Thule.
Di quel temerario e impensabile viaggio sulle
vie del nord per secoli si sono date le ipotesi più varie, la terra a sei giorni di navigazione dalla Scozia, su una che furono poi le
rotte dei Vikinghi a nord poteva essere la
Norvegia o la più remota
Islanda, addirittura l’ ignota
Groenlandia, ma è probabile che raggiunse la costa settentrionale norvegese al sessantaduesimo parallelo navigando a nord est dall’
Irlanda , ma sbarcando lungo le frastagliate coste dei
fiordi norvegesi ritenne di aver raggiunto una grande isola e tale fu ritenuta la penisola
scandinava per secoli.
Dalle
Shetland incrociò le
isole delle
Fær Øer non distanti dalla costa meridionale dell’
Islanda e quei figli del caldo Mediterraneo giunsero per primi all’
isola di ghiaccio e fuoco, che s’ erge con i suoi
vulcani e
ghiacciai nelle acque fredde lambite dal
mar glaciale dove annotarono con stupore
l’ immensa cima dell’ isola con un fuoco che brilla sempre osservando forse un qualche vulcano attivo e sicuramente in una delle lunghissime giornate dell’ estate
nordica, ma i pochi frammenti del suo racconto sgretolati dai secoli non menzionano ulteriormente quei
vulcani che dovevano apparire impressionanti porte degli inferi.
La grande impresa
Forse
Pitea descrisse nella sua opera
Intorno all’ Oceano che andò perduta e ne abbiamo solo i pochi riferimenti, in gran parte giunti attraverso i suoi detrattori come
Strabone, ma se mancano le descrizioni delle
stagioni e le
regioni dell’ isola d’
Islanda, non sono andate del tutto perdute quelle che lo spinsero a settentrione
“….regioni in cui non vi era una terra propiamente detta né mare né cielo ma un insieme di tutti e tre , in cui terra e mare e tutto il resto erano in una specie di sospensione in una specie di miscuglio gelatinoso di tutti gli elementi, su cui non si poteva camminare né navigare….”.
Si spinse ancora più a nord nell’ ignoto
mare glaciale trovando quei ghiacci sconosciuti ai naviganti del Mediterraneo che lo costrinsero a tornare indietro, forse aveva intuito che oltre quella barriera altre terre emergevano dall’ immensa distesa dell’ oceano tenebroso su una rotta che incrocia la
Groenlandia Kalaallit Nunaat seguita oltre un millennio dopo dai
Vikinghi. Quelle poche note sopravvissute alla scomparsa della sua opera considerata d’ un visionario o peggio di impostore, alle interpretazioni dei pochi estimatori e dei tanti detrattori, sono parche di notizie, ma il
mare denso che descrivono con i ghiacci che sbarrano la rotta, non può essere quello delle coste d’
Islanda e tantomeno
norvegesi, i ghiacciai alla deriva si incrociano solo al largo dell’immensa
isola che molti secoli più tardi dall’
Islanda vikinga altri navigatori scoprirono in un estate artica avvistandone le coste verdi di vegetazione della tundra e chiamarono
Terra Verde Groenlandia.
Tornando le frammentarie descrizioni fanno pensare che seguì la costa dei
fiordi norvegesi fino a
Trondheim, dove osservò una terra selvaggia tuttavia abitata da primitivi
agricoltori antenati dei
Norreni e nomadi dei
Sami. Lungo quelle coste tornando a sud trovò lo
Jutland e il territorio ove una delle
Vie dell’Ambra incrociava con una
Via dello Stagno , da qui diventa sempre più difficile seguirne l’ itinerario, dai frammenti sembra che tornò in
Britannia e dalla
Cornovaglia in
Normandia terminando il suo viaggio.
Però egli dice che dallo
Jutland continuò la navigazione lungo una costa lunga
seimila stadi, distanza per la costa ove giunge la
Via Baltica tra la l’ odierna
Lituania e la vicina
Lettonia fino all’
Estonia sulla principale delle
Vie dell’Ambra dove ne osservò oltre quattromila libbre lasciate dal mare mosso sulla spiaggia in una notte. I ricchi mercanti che avevano finanziato la sua spedizione, potevano esser soddisfatti di aver avuto l’ ubicazione delle miniere di stagno e i luoghi originari di produzione della preziosa ambra e giacchè i commerci muovono quelle vie della storia, l’ impresa
Pythèas non sarebbe stata forse possibile senza essi, come quelle di altri viaggi ed esplorazioni, ma egli fu grande
navigatore e astronomo assetato di quella conoscenza e sfida dell’ ignoto che si perde nella notte dei tempi e che ha sempre trasformato il mito in certezza, la leggenda in storia.
Come altri che cercarono di svelare un mondo molto più vasto di quello concepito dai contemporanei fu diffamato e dimenticato, delle sue opere perdute ci arrivano frammenti. Nessuno cantò le sue lodi né la grandezza della sua impresa, solo un anonimo epigramma dell’
Antologia Palatina:“…La morte non ha fatto presa sulla tua fama gloriosa e universale. La tua anima è presente e brilla di tutto Io splendore donatole dal tuo genio, dalla tua scienza, dalla tua ineguagliabile intelligenza. Te la sei meritata raggiungendo persino l’ isola dei Beati, o Pitea…
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