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Borneo

Jungle e montagne

Massicci rilievi montuosi coperti da una jungla impenetrabile, fiumi turbinosi e difficilmente navigabili, animali e piante unici al mondo, tribù bellicose di “cacciatori di teste”. Questa è l’ immagine più conosciuta del Borneo, la terza isola del mando dopo la Gro­enlandia e la Nuova Guinea, con i suoi 734 mi­la Km di superficie, divisa tra la Malesia con il Sarawak e il Sabah nella parte occidentale e settentrionale e l’ Indonesia con il Kalimantan che occupa la maggiorparte del suo territorio centrale e orientale. L’ interno è una delle zone più selvagge e meno conosciute della terra dove ancora oggi organizzare una spedizione presenta difficoltà non indifferenti, so­prattutto se si vuole entrare in contatto con le tribù più isolate, fino a poco tempo fa temute per la loro sinistra fama di terribili “cacciatori di teste”.Kuching è la capitale del Sarawak, un porto piuttosto frequentato e un notevole centro commerciale gestito in gran parte da cinesi, ma la colonizzazione del Sarawak ha visto gruppi più vari: malesi, indonesiani, indiani, europei che coinvivono pacificamente nella prospetti­va dello sfruttamento delle straordinarie risorse dell’isola, in parte custodite da una natura grandiosa e quasi impenetrabile. Quando ci arrivai per il mio primo viaggio in Borneo era una cittadi­na tranquilla, l’ ho ritrovata come una piccola metropoli ai margini della jungla.Tuttavia bastano solo alcune ore di strada per raggiungere la foresta con i suoi segreti e la sua straordinaria realtà, la jungla e i fiumi impetuosi che l’ attraversano, i rumori inde­cifrabili, gli insetti e il soffocante caldo umido, un atmosfera che fin da quella prima volta mi ha accompagnato nei miei viaggi in Borneo. Nella jungla il sole penetra diffi­cilmente, alberi dal fogliame fìttissimo impediscono alla luce di illuminare l’ ambiente sempre immerso nell‘ombra, assieme agli strati di foglie morte, formano il “sottobosco” della foresta pluviale, costantemente viscido e fangoso, in tali condizioni si possono percorrere solo alcune centinaia di metri in un’ora, aprendosi la strada con il machete. Quando si scatenano i temporali avanzare è quasi impossibile, i violenti scrosci d’acqua riescono a sfondare la “cupola” dei rami più alti creando pantani e ruscelli nei quali le sanguisughe si moltiplicano attaccandosi a decine agli abiti e alla pelle.Il terreno acquitrinoso non permette alle piante di rimanere saldamente attaccate al suolo, con i temporali più violenti anche gli alberi più grandi sono soggetti a cadere abbattendone altri i cui tronchi rendono ancora pìu difficoltosa la marcia. Tuttavia nella jungla niente è stabile, i giganteschi tronchi vengono attaccati dall‘umidità, piante parassite, termiti e formiche e in breve vengono disintegrati. Gli spazi lasciati dagli alberi ab­battuti dai temporali vengono nel frattempo subito occupati da pianticelle, tra le quali quelle di più rapida crescita soffocano le altre e spesso riescono anche a raggiungere gli alberi più alti, riempiendo nuovamente la radura.La jungla è in continuo movimento, un’ incredibile esuberanza naturale costituita dai cicli più vitali più vari che possono nascere e concludersi nell ‘arco di una giornata o possono essere secolari, ma mai niente è statico, tut­to è in continua crescita e rapido deperimento. Gli alberi giganti sono rappresentati per oltre la metà della famiglia delle Dittero-carpacee, costituita dai generi:Dipterocarpus, Anisoptera, Driobalanops, Shorea, Hopea e Vatica, i “Ficus” sono rappresentati da seicento specie, hanno i frutti commestibili e le radici aeree che si sviluppano notevolmente, soprattutto quelle del Banan. Singolare è il “Ficus strangolatore”, il cui seme depositato su un ramo di un altro albero germoglia e si sviluppa rapida­mente attorno ad esso fino a soffocarlo completamente in poco tempo. L’aspetto più suggestivo della jungla è dato dalle liane intricatissime, le felci giganti del genere Asplediniun Nidus, Polypcxiium tacleun, Platyceriun, le più piccole Drynana quercifoliun e Chioglossum pendulum. Numerosissime le specie di fiori, solo di orchidee ve ne sono ben 5030 tra specie e sottospecie, di ogni colore e grandezza; alcuni fiori rarissimi in altre zone tropicali, qui sono eccezzionalmente diffuse, come quelle del “Dendrobiun” il “Phalaenopsis”, il “Vanda” e il “Gymbidium”.Il sottobosco è poi caratterizzato da tutta una serie di piante basse che si intricano tra loro come le Antidesma, Mallotus, Melandepis ed altre, al livello immediatamente superiore gli alberi dei generi Tectona, Colona, Trema e Litsea, i cui tronchi; assieme agli arbusti e ai “bambù roa­tang” spinosi, costituiscono un ulteriore ostacolo alla marcia nella jungla, che in molti casi può avvenire solo aprendosi una strada a colpi di machete. In questo straordinario ambien­te vegetale vivono e si moltiplicano numerosissime specie animali: dalla grande quantità di insetti, agli uccelli e i mammiferi di ogni dimensione. Gli insetti costituiscono indubbiamente l’elemento più fastidioso per il viaggiatore e ce ne sono di ogni specie; dalle zanzare e anofeli della malaria, alle mosche “ che trasmettono malattie cane il tracoma e l’ ameba, bruchi, calabroni, vespe, tra le quali la grossa “vespa tropicale” dal pungiglione velenoso.Insetti strani come l’ “ape Meliponidae”, priva di pungiglione, ma che si attacca alla pelle per succhiare il sudore diventando fastidiosissima e le cui larve sono una ricercata ghiottoneria per gli indigeni. Inoltre api, coleotteri e formiche gigantesche, numerosissime specie di falene notturne che si raccolgono a migliaia attorno alle lampade da campo accese nella notte, poi cicale che accompagnano con il loro rumore ininterrottamente per giorni, centopie­di, scolopendre velenose, scorpioni, ragni gi­ganti.Presenti in centinaia di specie gli uc­celli si sentono durante il giorno e la notte, ma è difficile vederli e quasi impossibile fo­tografarli, nascosti come sono nella vegetazione fittissima.Il suono più frequente è quello prodotto dal calao, simile al suono di una trombetta soffo­cata e vi sono malti generi di calao in Borneo;il Rhinoplax, l ‘Aceros e l’ artbracoceros, uc­celli considerati sacri dalle popolazioni Dayak. Le scimmie occupano un posto a parte nella fauna dell ‘isola, ve ne sono moltissime: gibboni, sirango symphalangus syndactylus, macachi del genere Presbytis, i cui calcoli biliari sono richiestissimi dai farmacisti cinesi. Tra tutte le scimmie del Borneo quella più nota è l‘Orangutan, “L’Uomo della Foresta” in lingua malese, purtroppo decimata a causa della caccia spietata in passato, dalla grande richiesta degli zoo e dalla deforestazione in molte aree.Animali stranissimi anche tra i mammiferi e i rettili, come il Cynocephalus variegatus un predatore dotato di una membrana che gli permette di “planare” al suolo da grandi altezze senza danno. Queste particolari capacità di a­dattamento relative a membrane e organi che per mettono ad animali terrestri di diventare “vo­lanti”, sono piuttosto comuni tra la fauna del Borneo. Le troviamo nel Plicozoon, un geco che si serve di ampie membrane e nel Crysopelea Paradisi, un serpente dotato di costole eccezionalmente sensibili che è in grado di assottigliarsi in modo incredibile così da po­ter facilmente “planare” al suolo dagli alberi più alti, la rana tacoforo dalle lunghissime dita palmate simili ad ali.

Mosaico etnico

Con il termine “Dayak” si indicano generalmen­te le popolazioni del Borneo che possiedono u­na certa unità culturale, ma che tuttavia si differenziano notevolmente tra loro ad un esa­me più approfondito. Differenze ancora più evidenti se si prendono in considerazione i Dayak veri e propri, con un livello culturale superiore ed articolato, e i gruppi di cacciatori e raccoglitori nomadi dell’ interno cane i Butik, gli Olo-Or, i Punan e i Butikan che rappresentano la più antica popolazione “paleomalese” che per prima si insediò nell’isola.I Dayak veri e propri, appartengono al grande gruppo Dusun, suddiviso, in “costieri” e “della foresta”, antropologica mente vicini ai Dusun sono anche i Murut dell’ interno.Nella parte più occidentale e nel Sabah troviamo i Rungus, Badjo e Illanum, provenienti dalla peniso­la malese e dalle Filippine, la co­sta orientale è abitata dalle tribù Suli, Manum e Budji, mentre dalle coste del Sarawak fino all ‘area centrale e orientale, il territorio è occupato dai Keniah, i Mandang e i Kayan.L area sud orientale del Kalimantan, appartenente all’ Indone­sia, oltre ai Dayak Iban, è occupata dalle tribù Seputan, Kutei e Pnohing, mentre quella occidentale è abitata dai Sekadau, Landok, Sanggau e Rupu, più nello interno gli Ulu-Ayer e gli Ot-Denum.Nel Sarawak malese sud-occidentale il Kalimantan indonesiano, vi sono i gruppi più numerosi di Dayak della foresta, lungo i fiumi dell’ interno vivono le tribù Iban o Batan Lupara.Le popolazioni paleomalesi originarie dell’ isola sono ridotte a pochi gruppi nomadi di raccoglitori e cacciatori con una struttura economica e sociale malto elementare, spinte nell’ interno dai più progrediti gruppi Dayak e sono attualmente difficilmente raggiungibili.Non possiedono vere e proprie capanne, ma abitano in rudimentali “ripari” di rami e foglie, vestono con perizomi e gonnellini di corteccia e si muovono continuamente nella foresta in cerca di selvaggina e gli Iban mi hanno sempre parlato vagamente di questi gruppi i che considerano primitivi e inferiori. Gli Iban, rappresentano il gruppo etnico più diffuso nel Borneo setten­trionale, contano circa 25 mila individui e popolano vaste aree sulle quali possiedono il completo dominio. Provenendo probabilmente da Sumatra in epoche remote, le tribù Iban si sono insediate lungo i fiumi, uniche vie di comunicazione nella fo­resta vergine. Vivono in villaggi dalla strut­tura malto particolare ed estremamente funzio­nale: le “longouse”, “case lunghe”. la longhouse è una casa su palafitte che può raggiungere anche centinaia di metri di lunghezza divisa in varie stanze, in ognuna delle quali abita un nucleo famigliare. Tutta la struttura poggia su alte palafitte con un pavimento di bambù coperto da stuoie. All’ inter­no vi è un lungo corridoio sul quale si affacciano le stanze chiamate bilek, questo cor­ridoio, il Ruai, rappresenta lo ’‘spazio sociale” della tribù, in esso si riuniscono le fa­miglie per cerimonie, decisioni collettive, danze o solo per stare insieme. Parallamente al Ruai all‘ esterno vi è una lunga terrazza sotto la quale vi sono i maiali di proprietà della tribù che rappresentano l’ allevamento principale assieme ai polli.la struttura sociale degli Iban non è molto definita, il clan riveste un’ importanza margina­le, così cane il capo villaggio, il Tua Rumah che svolge una funzione di coordinatore delle decisioni dei capofamiglia came matrimoni, divorzi e piccole controversie. Oltre la caccia e la pesca l’allevamento dei maiali e l’agricoltura sono gli elementi fondamentali dell ‘economia Iban, l’agricoltura segue i criteri del ‘taglia e brucia”; si sceglie una zona di foresta disboscandola con il fuoco, quindi si dissoda per impiantarvi coltivazioni. Il prodotto agricolo principale è il riso che viene consumato dagli Iban in grandi quantità, quando il terreno è completamente sfruttato dopo un paio di anni, si sceglie un’altra area vicina e si esegue lo stesso metodo. La ritualità è in gran parte legata all’agricoltura, vengono celebrati malti riti propiziatori magico­religiosi, soprattutto dalle donne che seguono l’andamento delle coltivazioni. L’animismo degli Iban considera tutte le cose co­me dotate di “energia vitale”, anche le piante per tale motivo prima di ogni raccolta del ri­so avviene il “rito della prima pianta”. La prima piantina cresciuta viene tagliata per assi­curarsi un buon rapporto con l’ “anima del riso”, quindi si eseguono festeggiamenti e cerimonie alle quali partecipa tutta la tribù.

Quasi l’intera giornata degli Iban si svolge nella longhouse, tutte le mattine i membri della tribù di qualsiasi età si bagnano al fiume, poi le donne preparano il cibo prima di recarsi ai campi di riso o nella jungla per raccogliere frutti selvatici. Nel prima pomeriggio tornano alla longhouse per dedidarsi alle attività quotidiane e pulire il riso, preparano in pasto serale in ciotole alcune delle quali vengono allineate e offerte al dio della pace Pulangaa na.

Tutta la sera è dedicata all’ intreccio per fabbricare ceste, canestri ed altri oggetti, una attività artigianale malto importante alla quale si alternano uomini e donne. Tutti gli Iban amano trascorrere la sera e parte della notte nel “ruai” a bere la birra di riso “tuak”, fumare, conversare e giocare con i bambini con i quali gli adulti hanno un profondo rapporto di affetto.Un tempo gli Iban erano temibili guerrieri e si spingevano nelle loro scorrerie fino alla co­sta, l’uso più noto di questa popolazione è quello della caccia alle teste praticato fino a pochi anni or sono e drammaticamente ripreso recentemente nel Kalimantan, basata sul loro complicato aninismo che individua forze vitali in ogni cosa, soprattutto negli uomini nei quali tale forza credono che risieda proprio nella testa e i capelli.

Per tale motivo il taglio della testa e la sua conservazione nella longhouse era un elemento indispensabile affinchè la tribù propserasse e crani anneriti dal fumo sono accu­ratamente conservati in grappoli all ‘interno della longhouse, oggetto di cerimonie periodiche.la ritualità degli Iban, al tempo delle scorrerie, era in gran parte legata alla interpreta­zione degli auspici e alle pratiche magico-­re­ligiose per ingraziarsi gli spiriti prima del­le spedizioni; dopo le cerimonie e le danze che duravano tutta la notte, i guerrieri partivano all’alba su grandi piroghe ornati con coprica­pi piumati, corpetti di pelle scudi dai disegni geometrici e armati di lance e lunghi coltelli decorati. Arrivavano al villaggio nemico e ne sorprendevano la popolazione, in procinto di svegliarsi, bruciando tutto e uccidendo gli uomini, ai quali veniva tagliata la testa, men­tre le donne venivano fatte prigioniere. Se la spedizione vittoriosa coincideva con la costruzione di una nuova longhouse da parte dei vincenti, una delle prigioniere più giovani veniva sacrificata agli spiriti schiacciandola con il pilastro centrale della nuova costruzione, la maggior parte delle longhouse meno recenti ha una vittima nella buca del palo più grande.Attualmente l’uso delle armi è limitato alla caccia per la quale privilegiano l’ efficacissima certottana alla estremità della quale è le­gata una lama che la trasforma in lancia. Tra i riti più antichi rimasti quello più im­portante è connesso all ‘agricoltura, dato che essa è ormai l’attività economica fondamentale che dipende completamente dal regime delle piogge. Quando arriva la data della cerimonia, il Tuak Rumah prepara dei cibi assistito dil capifamiglia, quindi vengono deposti in ciotole sistemate sul pavimento del “rumi” secondo un ordine stabilito. Eseguiti i preparativi, il Tuak Rumah uccide un pollo trafiggendogli la gola con le sue stesse penne e ne fa sgorgare il sangue in tre recipienti, poi lo versa sul pavimento per ingraziarsi il potente dio della guerra.Il Tuak Rumah e il capo di un gruppo ospite iniziano a mangiare il cibo consacrato, dopo di che ciascun membro della comunità prende la sua piccola porzione, mentre i capi in processione depositano il cibo rimasto in apposite ceste per le offerte situate accanto ai grappoli di teste tagliate. Questo è il rito importantissimo al quale ho avuto l‘ onore di partecipare come “capo straniero” in una delle più remote longhouse dell’ interno, un’ occasione unica per documentare una delle cerimonie più segrete di questo popolo.Dopo il rito iniziano le danze che vengono aperte dai guerrieri più coraggiosi vestiti con i loro costumi di battaglia, al tempo della caccia alle teste i guerrieri danzavano tutta la notte esaltandosi e preparandosi alla spedizione. I danzatori si muovono lentanente al ritmo di xilofoni costruiti con grandi pia­stre di bronzo, la danza continua a lungo provocando nei guerrieri una specie di “trance” alla fine della quale si stendono sulle stuoie esausti. Il governi coloniali inglese nel Sarawak e olandese nel Kalimantan, proibirono severa­mente la caccia alle teste e per reprimere questa attività furono organizzati raid militari contro i villaggi che non si sottomettevano, ma la caccia alle teste riprese durante l’ occupazione giapponese del Borneo nella seconda guerra mondiale e gli Iban non ebbero mai tanto “materiale” per la loro sinistra usanza ed attualmente la maggior parte dei crani appesi nelle “case lunghe” apparten­gono a soldati giapponesi.Dopo la guerra, durante il tentativo di insurrezione comunista in Malesia, il governo coloniale britannico pensò bene di scatenare i guerrieri Dayak contro i guerriglieri e vi fu un nuovo sangunoso “raccolto” di teste da esibire nelle longhouse, poi l’ antico uso sembrò scomparire definitivamente.Alle soglie del terzo millennio nel Kalimantan, oggetto di sfruttamento selvaggio delle risorse e immigrazione forzata di giavanesi da parte del governo indonesiano, la rabbia delle tribù Iban è esplosa a modo loro e i violenti scontri contro gli indonesiani hanno riportato l’ antica usanza.Il tatuaggio è un elemento molto importante del costume Iban ed ha un valore magico oltre che estetico, essi credono che i tatuaggi sul corpo servono a proteggere dagli animali feroci della jungla che, senza i segni sul corpo, li scambierebbero per altri ani­mali e li ucciderebbero. I tatuaggi vengono fatti su tutto il corpo con diesgni geometrici e stilizzazioni malto belle, ma solo i cacciatori di teste possono avere le mani tatuate, ogni piccolo segno sulle dita rappresenta una testa tagliata: tra i più anziani ne ho con tati fino a cinquanta.Il tatuaggio è un’ operazione lunga e complessa ed ogni “longhouse” ha un “maestro” che lo pratica abilmente usando un ago imbevuto di un colorante scuro, la pratica è delicata e piutto­sto dolorosa e spesso provoca infezioni locali. I rapporti tra gli Iban e i governi malese e indonesiano, non sono sempre buoni, soprattutto quando si tenta di mettere in discussione la loro esistenza legata alla tra­dizione, agli antichi costuni e alla vita nella jungla. Con circa 25 mila individui gli Iban del Sarawak malese hanno ottenuto anche loro un rappresentante al parlamento di Kuala Lumpur, ma per il popolo del Borneo egli non è un’ “deputato”, ma solo un Tuak Runah più importante che spesso si reca malto lontano a parlare con degli “stranieri”.. che non potranno mai camprendere l’anima del popolo Iban, come mi disse un vecchio capo sulla veranda della sua casa lunga, mentre mi raccontava di vecchie battaglie, di cerimonie, di teste tagliate…

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