Sarawak
Il viaggio
Il Sarawk appartiene alla Malesia, ma è come se fosse diviso dalle altre regioni da un enorme distacco di spazio e di tempo, con il suo vasto territorio scarsamente popolato da individui variamente distribuiti e divisi in innumerevoli specie e culture, sviluppati in un arco di tempo che va dall’ età del ferro all’ età dei consumi.La capitale è Kuching, il nome rivela un’ origine cinese, situata sul fiume che dà il nome al territorio. E’ qui che l’inglese James Brook, l’ acerrimo nemico di Sandokan secondo i racconti dello scrittore Salgari, costituì un rajastato bianco durato fino al 1945 quando la regione fu assunta direttamente dalla corona britannica.L’interesse destato da questa città, dagli aspetti del tutto simili agli altri agglomerati urbani del sud-est asiatico, è puramente convenzionale con i suoi empori, alberghi e le sue strade affollate e non è ideale per un soggiorno più lungo di quello necessario per cercare modi e mezzi per iniziare il vero viaggio di scoperta verso l’interno.Sono cinque ore di viaggio infuocato fino a Simanggang sul fiume Skrang, dove si affittano le imbarcazioni: una robusta canoa a motore, venti cavalli, ci imbarchiamo con bagagli e provviste e iniziamo a navigare lungo il fiume mentre scorre un paesaggio fantastico, verde, azzurro, giallo; sulle rive sembrano scorrere tutte le sfumature dell’ arcobaleno: foreste, alberi giganti, cespugli fioriti, orchidee e piante carnivore.Arrivano le prime rapide con l’ acqua che sembra montare e capovolgere la canoa.. .ma tutto va bene, grazie all’ abilità dei conducenti, tra i quali una donna eccezionale che con la sua calma, la sua esperienza e il suo vigore ha tranquillizzato tutti .Dopo circa due ore, anche di marcia all’ interno della foresta dove le rapide non permettevano la navigazione, incontriamo la prima abitazione Iban.
I Dayak
Gli Iban sono un ceppo della popolazione dei Dayak, insieme ai Kayan e ai Kenyah. Sono chiamati anche Dayak del mare data la loro vicinanza alle coste e ai corsi dei fiumi. La loro abitazione è la” Long House”, o casa lunga,per la caratteristica forma allungata, mostra tutte le caratteristiche per cui è stata edificata. Proprio la sua forma allungata dà rilievo all’ importanza sociale della convivenza fra le famiglie: ogni qual volta se ne forma una nuova viene aggiunta un’ altra struttura alla casa. Il pavimento della casa è fatto di canne di bambù tagliate longitudinalmente e incastrate tra di esse con le travi portanti su cui vengono distese larghe stuoie dai molteplici usi: come giaciglio per la notte, come zona di soggiorno per il riposo pomeridiano, come luogo di incontro e di conversazione o dove raccogliere i cereali.La lunghezza delle long house dipende dal numero delle famiglie presenti, che possono variare da 10 a 40, di solito costituito da una stanza e da una veranda sul retro. L’ arredamento è essenziale: le stuoie, il fornello, gli utensili, qualche sgabello, qualche panca, anche alcuni materassi e un divano sgangherato. Alle pareti ci sono attaccati ritagli di giornale, foto,e qualche manifesto governativo che riguarda la prevenzione alla malaria e il controllo delle nascite.I Dayak del mare consumano il loro pasto accoccolati in terra, attorno alla “portata”deposta su larghe foglie o su un recipiente di terracotta, dove ciascuno attinge la sua razione. Il cibo, di solito, è fatto di riso bollito, alimento base, accompagnato da pollo o da pesce, da banane fritte o fresche, talvolta è presente carne di scimmia e di cinghiale . I bicchieri sono fatti con la canna di bambù , elemento abbondante lungo i fiumi e sfruttato per ogni cosa utile.Il bambù è la loro stessa immagine: flessibile, sonoro, è letto e utensile,parete divisoria o un mobile d’ uso, è ornamento e recinto, diventa un’ arma pericolosa e tagliente, acuminata lancia, freccia avvelenata, canna da pesca, trappola catturare gli animali…Chi ha bambini piccoli, che sono molto coccolati specialmente dal padre, provvede a tenerli buoni mettendoli in una specie di culla dondolante che viene appesa al soffitto con un gancio ed è formata da due elastici alla cui estremità viene legato un pezzo di stoffa piegato in due e dove viene messo il piccolo.La vita della comunità si sposta al di fuori di questi stanzoni, che nella loro lingua vengono chiamati Bilek, su un corridoio che si apre davanti al bilek, detto Ruai, che è di appartenenza della famiglia che lo abita, anche se vi possono accedere tutti. Lungo il corridoio sono appese ‘teste’ dei nemici uccisi ,nel passato, annerite con il fumo e messe dentro gabbie fatte con lamine di bambù.Fino a qualche decennio fa i Dayak erano noti come i cacciatori di teste per la loro usanza di tagliare, con un secco colpo di machete, la testa dei nemici uccisi. Tale pratica nasceva da una credenza animistica: ogni parte, ogni componente della natura possedeva una anima e così ogni parte di un uomo, in quanto oggetto della natura. Appropriandosi della testa del nemico il Dayak si impadroniva del suo coraggio e si garantiva una vita piena di salute e di fortuna avendo sconfitto il nemico che lo perseguitava.Oggi gli Iban utilizzano i ‘vecchi’ teschi per i loro riti, in quanto ancora conservano meccanismi di sicurezza verso la natura, verso il mondo esterno.L’ usanza di tagliare le teste è stata abbandonata da tempo, anche per l’intervento diretto del governo britannico dopo la seconda guerra mondiale, con operazioni anche cruenteNel corridoio della Long House c’è anche una zona riservata agli strumenti di lavoro: una macina a mano che serve per pulire, liberare dalla scorza, i cereali ed è formata da due cilindri, uno alla base che è il più lungo e l’ altro incastrato sopra con ai lati una specie di manico per fare girare la pietra. Nel centro c’é un foro dove vengono messi i cereali per essere mondati e alla base le donne Iban mettono una stuoia per raccogliere i chicchi nettati. Appese alle pareti ci sono le reti che servono alla pesca e sul pavimento ci sono anche degli strumenti musicali, spesso li troviamo al centro del corridoio e davanti all’ appartamento del capo, chiamato il Tua Rumah, come tamburi, gong metallici messi sopra una scatola rettangolare di legno, tipo uno xilofono, in ordine di grandezza, per avere un suono diverso sbattendoci sopra due bastoni accompagnato da una specie di’ chitarrone’ chiamato Inbahi. Sparsi un pò ovunque ci sono vasi di terracotta dove i dayak mettono una bevanda da loro prodotta distillando il riso: il Tuak.L’ economia degli Iban si basa soprattutto sulla caccia, sulla pesca e sulla agricoltura: coltivano riso, pepe,banani e qualche ortaggio. la tecnica usata é quella del taglia e brucia : abbattono gli alberi della foresta e ne bruciano le radici, sovesciando le ceneri per rendere più fertile il terreno, fino alla sua massima utilizzazione.Quando il terreno é stanco di essere sfruttato, di solito avviene nel ciclo di dieci anni, i Dayak si spostano in un altra zona e rincominciano da capo, con lo stesso sistema.Man mano ricostruiscono le loro Long House, abbandonando le vecchie, per avvicinare la famiglia al nuovo terreno sfruttato. Questi sono lavori da uomini, mentre le donne rimangono spesso a casa ad intrecciare paglia per ricavare stuoie, ceste, cappelli; a pulire I cereali; pensano alla manutenzione degli utensili, della casaLe donne preparano il veleno per la caccia, ricavato da un miscuglio di erbe che fanno bollire in grandi caldaie fino a formare una pappa densa e vischiosa, dove intingono le punte delle lance.La caccia è praticata con l’ uso della cerbottana, un tubo di bambù lungo fino a tre metri, in cui soffiano le loro frecce avvelenate. Vengono usati anche pali appuntiti, fonde, coltelli e i macheteIl riti e le feste sono legati al ciclo dell’ anno, come tutti i popoli legati alla caccia e alla raccolta, e uno dei pochi riti che riesce a sopravvivere ancora oggi è il Capodanno,detto Gawai, che segna la fine del raccolto e la speranza che quello che verrà sia buono.Intermediari della prosperità sono gli spiriti della foresta ed interpreti di essi sono i morti a cui fanno offerte che consistono in scodelle di riso deposte dentro ceste messe su appositi rialzi. Per l’ occasione vengono fatti dei sacrifici che consistono in polli sgozzati il cui sangue caldo bagna il cibo da offrire. Subito dopo il capo della famiglia dà inizio alle danze rituali.L’ abbigliamento degli Iban durante la danza consiste in una lunga fascia che avvolge i fianchi e la vita del danzatore, lasciando ricadere i lembi lungo il pube; il capo è coperto da un cappello ornato da lunghe piume di ‘calao’, l’ uccello sacro della foresta; i lobi delle orecchie sono infilzati da grandi e pesanti anelli di metallo. Il torace e il dorso nudi mostrano i tatuaggi. La tecnica del tatuaggio è quella a puntura, un ago, o qualcosa di appuntito, punzecchia la pelle tracciando un disegno, dopodiché sulle punture viene strofinata una sostanza colorante ottenuta con vegetali e fuliggine. La danza di solito è individuale e inizia con movimenti lenti e studiati. Il danzatore è armato dall’ inseparabile machete che rotea in basso e In alto come in un combattimento, mentre con l’ altro braccio spinge in avanti uno scudo di legno dai colori vivaci.
La musica, che si basa su due note essenziali, segue i passi del danzatore che si muove come un animale ferito, volteggia come un uccello colpito, alterna movenze lente a scatti improvvisi e rapidi, cambia posizione, nonostante rimanga sempre piegato sulle ginocchia, mima l’ ondeggiare dei cespugli, il dondolare dei rami nel vento, diventa animale, uccello, pianta, pioggia, vento, cacciatore e preda, come il mondo in cui vive, nella natura in cui è immerso, nelle stagioni in cui è legata la sua esistenza, negli spiriti che lo proteggono o lo avversano.
Il ritmo è trascinante e si trattiene il fato aspettando qualcosa che sta per avvenire, qualcosa che sfugge ad ogni ragionamento, ad ogni elemento conosciuto: si avverte lo spirito che è nella casa e quando la danza termina tiriamo un sospiro di sollievoQuesti usi e costumi stanno spegnendosi, infatti si nota la frattura che si è creata tra la vecchia generazione con la nuova che ha più contatti con l’ esterno; i vecchi muoiono e i giovani vanno in cerca di lavoro al di fuori della comunità, spesso nelle città che si avvicinano al mondo occidentale. Da sempre si è fatto così e il chronos, la tradizione viene perpetuata finché non si spegne o continuerà a vivere solo per scopi turistici.
Maria Del Papa